[ita] La fuga – Intervista a Diego Rosa
Ci provi, ci riprovi e niente. Non ti lasciano proprio andare. Oppure ce la fai, sei solo o in gruppetto, e per un centinaio di chilometri sogni di arrivare a braccia alzate, ma senti il fiato sul collo del gruppo che da un momento all’altro può spezzare ogni tua brama di vittoria. La fuga è così, un azzardo, un po’ come giocare al casinò: rischi e magari non ti gira mai sulla ruota giusta.
Oppure sì, va come deve andare e ti regali una giornata da leone, come quella di Dario Cataldo che, dopo 218 km di fuga in compagna di Mattia Cattaneo, domenica ha trionfato nella quindicesima tappa sulle strade rese celebri da una classica monumento quale il Giro di Lombardia. Una corsa che nel 2016 rischiò di vincere Diego Rosa, quando fu secondo alle spalle di Esteban Chaves. Il trentenne piemontese è un altro che di fughe se ne intende e il suo arrivo con la bicicletta alzata al cielo dopo il successo nella 5ª tappa del Giro dei Paesi Baschi 2016, a coronamento di una avventura solitaria di più di 100 km, è ancora negli occhi di tutti.
Reduce dal Giro di California, il corridore del Team Ineos si è concesso qualche giorno in famiglia nella sua Corneliano d’Alba assieme alla moglie Alessandra e al figlio Elia, prima di ripartire a tutta verso gli appuntamenti dell’estate. E non potevamo che chiedere a lui tutti i retroscena di una fuga.
Come nasce una fuga?
«Innanzitutto bisogna fare distinzioni. In un grande giro, ci sono tappe designate per gli attacchi e altre in cui a nessuno interessa. Ci sono frazioni da velocisti, in cui è quasi scontato che la fuga non arrivi e al km 0 si muovono quei corridori che vogliono farsi vedere o fare risaltare il marchio della squadra o per interessi diversi, come i traguardi volanti. In quei giorni è facile entrare in fuga e, se vuoi andare, si va. Invece, quando c’è la possibilità che la fuga arrivi, è guerra».
Cosa ci vuole per entrare nella fuga giusta?
«Bisogna essere fortunati e un po’ astuti a capire la situazione di gara. Non basta attaccare alla cieca per entrare in fuga. Magari vai avanti per un’ora a provarci di continuo e devi capire i movimenti da seguire e quelli in cui è scontato che il gruppo chiuda. Se si muovono uomini di classifica, è quasi inutile provarci perché le altre squadre sono pronte a chiudere. Ci sono tante dinamiche da interpretare».
Dunque, tutti i discorsi che si fanno in bus, possono poi saltare una volta in corsa?
«È la strada che decide. Di solito, sono più corridori di una squadra designati ad andare in fuga, perché da solo è difficile star dietro a tutti i movimenti del gruppo. Ci sono tre o quattro corridori, ad esempio, che coprono la prima parte di gara e noi come Team Ineos ci troviamo spesso dall’altra parte, ovvero quello di controllare la corsa e di fare andare via la fuga giusta, che ci permetta di lavorare di meno e chiudere su quelle che magari possono dar fastidio in chiave classifica. È un gioco teorico in cui bisogna pensare ai differenti scenari possibili».
E in una fuga con tanti corridori, come ci si comporta?
«Di solito, quando la fuga è numerosa, non si va d’accordo: è la più difficile da gestire da dentro. Ci sono sempre 4 o 5 corridori che non lavorano o per interessi di squadra o perché sarebbero battuti sulla carta se si spremessero troppo. Così, gli altri si arrabbiano con chi sta a ruota, è un litigare continuo e non si guadagna quanto si dovrebbe. La fuga che va più lontano è quella composta da 7 o 8 corridori».
E Diego Rosa, in fuga, come si trasforma?
«Se sto bene, sono uno di quelli generosi, che cerca di incitare i compagni di avventura. Bisogna gestire la situazione, parlare con gli altri, capire chi c’è da marcare stretto. Poi divento un po’ stratega, cerco di capire chi va isolato se ad esempio tra i fuggitivi c’è qualcuno più veloce di me in volata: magari mi accordo con un altro corridore che posso battere in volata per organizzare un attacco combinato per staccare chi mi impensierisce di più. Oppure, mentre vai, ti accorgi se c’è qualcuno che va più o meno forte in salita o in discesa: è uno studio continuo».
E quando si è in fuga solitaria, come in occasione della sua vittoria solitaria di 3 anni fa, come funziona?
«Quella fuga lì, se non ricordo male, è nata con 25 corridori. Tira te che non tiro io, non si andava d’accordo, il gruppo non ci lasciava molto spazio e così ho capito che dovevo rompere la fuga. Ho attaccato sul gpm a 120 km, sono rimasto da solo e ho tirato dritto».
Che cosa passa per la testa in quei momenti?
«Ormai stavo spendendo tanto e se fosse rientrato qualcuno non avrei avuto possibilità, così ho pensato di dare tutto nonostante la squadra mi urlasse tutto il tempo di aspettare e mi sono automotivato. Ho trovato il ritmo giusto da mantenere fino al traguardo, senza andare fuori soglia in salita, ho cercato di concentrarmi in tutto, compresa l’alimentazione. Quando in ammiraglia hanno visto la mia decisione nell’azione, hanno cominciato a stimolarmi e a darmi consigli, guidandomi in discesa e in pianura. Alla fine mi sono stradivertito e, con un po’ di fortuna, sono arrivato fino al traguardo».
Ha visto la fuga vincente di Cataldo sulle strade del Lombardia?
«Quelle strade per me hanno sempre un fascino speciale perché con la Palazzago da giovane correvo sempre lì. Mi piacciono, così come mi piace il Lombardia, la classica che chiude la stagione. Dario e Mattia sono stati bravissimi a gestire lo sforzo fino alla fine perché era una tappa durissima al termine della seconda settimana del Giro: chapeau a loro. Sono stati furbi perché non si sono persi in tatticismi e poi in volata ha vinto chi ne aveva di più».
Testi: Alberto Dolfin
Immagini: Gettyimages, Archivio Castelli